MOSTRE

Descrizione:

PAESAGGI DEL RICORDO

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La vita sobria

“Cardinale AngeloVoiello: e a lei, cosa la commuove? Sir John Brannox: l’inesauribile imperfezione del mondo.

– Paolo Sorrentino, The New Pope, 2020 –

L’Arte come rifugio

La dimensione artistica come opzione alla Vita, come ipotesi alternativa alla realtà, è concetto plenario, complicato e tortuoso – oltre che, allo stesso tempo, rassicurante – che alcune delle menti più significative del Sapere hanno espresso

attraverso lo sprigionamento delle loro poetiche letterarie, pittoriche, musicali, teatrali o cinematografiche.

Fernando Pessoa, ad esempio, riponeva grande fiducia e aspettativa nei confronti dell’immaginazione come luogo del pensiero: “l’arte è la dimostrazione che la Vita non basta”, infatti, è una verticale mentale importantissima e ingombrantissima per comprendere quanto sogno e verità, astrattezza e concretezza, tangibile e inafferrabile, per il Poeta portoghese avessero sufficiente ampiezza per coesistere e lasciare tracce a chi sarebbe stato in grado di coglierle e raccoglierle.

Se la Vita fosse chiara, l’Arte non avrebbe motivo del suo senso”, ancora, Albert Camus ci rammenta con semplicità ed efficacia: catapultandoci subito in una stanza della verità che comprende, che include, un Oltre, un Aldilà, un concetto di Nonostante, che ci libera dall’asfissia della brutalità del quotidiano e ci lascia sperare che, qualche volta, non tutto può costantemente, come invece purtroppo la maggior parte delle volte è, apparirci perduto o composto di sola e irrisolvibile finitezza.

Perché ciò a cui l’Arte vera dovrebbe inderogabilmente tendere è, senza dubbio, un frammento di Eternità, di senza SpazioTempo Coordinate, che, anche solo per un attimo di sollievo e di speranza, ci lascia sfuggire, ci permette di allontanarci, dalla consapevolezza della nostra condizione umana e, per sua stessa natura, in perenne decadimento – direzione non suscettibile a trattative di sorta.

Ed è a questo punto che l’Arte, fortunatamente, ci proietta nell’unico luogo in cui le – prima citate – dimensioni di Spazio, Tempo e Coordinate, si abbattono – anzi si annientano! – permettendo alla fantasia di fluttuare e volteggiare: creando cosmi, ecosistemi, costellazioni e dimensioni inedite che in pochi saprebbero intercettare e che in pochissimi – dono appannaggio dei soli Artisti – sanno esprimere e trasmettere attraverso la forma e la composizione dei loro agiti. La dimensione di cui si parla, naturalmente, è quella del Sogno. Laddove, al pari di quanto accade nei quartieri e nei perimetri della follia e del fanciullo, tutto è permesso, fattibile, ottenibile; o meglio, in una parola: possibile.

Ecco perché Erasmo, nel suo Elogio alla follia, si addentra spericolatamente – ma con coerenza: quella coerenza che solo i voli pindarici dell’intelletto che non contempla contraddizioni consente – nella riflessione per cui “se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, forse la vecchiaia neppure esisterebbe”: giacché i sentieri della mente, i tratturi dell’esistenza ponderata, i viali dell’anima, consentono ribaltoni – almeno momentanei, sebbene credibilissimi! – che la realtà (per Paolo Sorrentino “scadente”) non consente e, probabilmente, mai consentirà.

E il Sogno, inteso come dimensione o attimo del Rifugio, della protezione, del tracciato della coperta sotto cui da bambini non si può essere aggrediti dalle mostruosità del fuori della coperta e dell’Altrove, nella storia della figurazione, ha attraversato varie fasi e si è manifestato in varie forme – “formali”, “informali” o addirittura “deformi” che fossero. Partendo da trionfanti e definitissime manifestazioni come quella che fa Alessandro Allori, in “Sogno e allegoria della Vita umana”, passando dagli abissi uniformi e sconfinati di Mark Rothko, immergendoci nella illusione di una direzione spaziale o geometrica di Ad Reinhardt, arrivando alla gestualità percepita di Burri e, in fine, sospendendoci nel “senso enigmatico dell’esistere” (per dirla con Luca Doninelli) in poeti dell’immagine come Giorgio Morandi e le sue nature morte, i suoi scorci domestici, tutti uguali eppure tutti così diversi, che sembrano fatti di burro o di nuvola, pronti ad evaporare per sempre o, anche, a rimanere lì in “autovolteggiamento” eterno e perenne: come un fumo che non vuole uscire dalla camera o dalla finestra, che odora d’incenso e che non disturba: ma che anzi accompagna il cammino verso la comprensione delle cose.

Verso l’Essenza.

Quelle di Giorgio Morandi, sono delle vere e proprie alcove dell’emozione, dei nidi sentimentali, delle autentiche case sull’albero della prima età da cui si può escludere tutto il mondo ed essere (sentirsi) protetti: grazie alla forza della mente, illudendosi dell’immunità, del non trascorrere del tempo, dell’autoconservazione.

Ed è lì – precisamente lì – che Piero Brambilla – o, meglio, il Piero Brambilla Artista – ha deciso di abitare per tutta la sua vita (artistica). In quegli angoli di taluni anfratti intimi e silenziosi, discreti e nascosti che ha deciso di descrivere attraverso la forza vaporosa e vaga, sospesa e cotonata, ovattata e tenue, della sua pittura.

Sì, perché se è vero – come in effetti è vero – che le condizioni di alterazione dell’esistenza (di cui, sia chiaro, si può avere saggio ed esperienza umana quotidianamente anche semplicemente durante, per esempio, il sonno, oppure con l’ubriachezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti; o, anche, nel mentre di un fondale esplorato con qualche approfondimento psicologico o catarsi psicanalitica) disvelano la vera natura di chi le vive, di chi le attraversa, di chi le subisce, queste dimensioni, rivelando le vere traiettorie delle cesellature dell’identità e della coscienza più anguste, più formicolari o represse, lasciando le briglie di ogni freno inibitorio e percorrendo la strada unica della Verità (che spesso, ahinoi, è sempre peggiorativa e nasconde opacità e perversioni inaccettabili), la catarsi di Piero Brambilla, il suo sonno, la sua condizione di alterazione nei confronti della realtà, porta alla luce uno scenario che, paradossalmente, in maniera quasi inedita, si pone all’opposto preciso dell’esagerazione, del violento, dell’eccessivo o del trasgressivo – come, invece, in tutti accade, tradendo ipotesi di genuinità fallaci.

Il sogno di Piero Brambilla, infatti, non conosce estremi; ma, anzi, è tenue, placido, pacato, lineare, snello e, allo stesso tempo, mai asciutto, abulico o senz’anima.

Non esiste esasperazione o anche il più lontano indizio di una qualche forma – anche remota – di cattiveria o malintenzione, nelle rivelazioni su tela che compongono l’eredità culturale e figurativa di Piero Brambilla.

Ma, al contrario, vi è un candore, una pacatezza, una morigeratezza d’intenzioni e di visione che commuove per semplicità e, quasi, per sprovvedutezza e ingenuità.

In un certo senso, è come se le mostruosità che ha dovuto sopportare, vedere e vivere del Mondo, non fosse riuscita a incattivirlo, a corrompergli la sconfinatezza interiore, a sottrargli l’incanto; ma anzi, con l’ausilio della malinconia e del terribile come forze motrici, è come se lo avessero ammansito. È come se lo avessero istruito al tema dell’accettazione e fornitogli le istruzioni per gestire tutta la complessità dell’Universo. E la sua spietatezza, anche: che per Piero Brambilla si manifestava non soltanto nell’indifferenza del Cosmo e delle sue (non) ragioni, ma anche nella cattiveria cieca e buia di alcune gesta umane deputate allo sterminio, alla mortificazione, all’umiliazione – che il Piero Brambilla Uomo ha visto, vissuto e patito e che il Piero Brambilla Artista ha elaborato, fatto esplodere e messo in scena.

Dinanzi a tutto questo, Piero Brambilla, non si sottrae – ma, anzi, reagisce.

Ed è come se lo facesse con la quiete, con la calma, con la concentrazione e la clausura monastica che solo l’Arte può percorrere e, in fine, rilasciare o decifrare.

Generalmente tutti i tumulti interiori della storia delle Arti, si scaricano e confluiscono in gesti di violenza dell’immagine, di asimmetria compositiva, di scompostezza del gesto e del tracciato (generando comunque, talvolta, capolavori assoluti). E, ancora, sempre nell’ordine generale delle cose, la monoliticità sinistra di alcuni artisti ieratici, deflagra in coordinate di brutalità e di schegge impazzite evidentissime e memorabili. Piero Brambilla, invece, non soltanto ribalta questo meccanismo convogliando l’espressione del suo tumulto interiore in un moto immaginifico di sobrietà ma, anche, fa una decodifica dell’estetica che orizzontalmente sfocia nel vaporoso, nel non terreno, nel paesaggio immaginario. Quello mentale e astratto in cui albergano gli stati d’animo, i sentimenti, le emozioni e le vedute degli angoli più interni di lui stesso.

Quella di Piero Brambilla è, dunque, definitivamente una pittura della mente che indaga l’inafferrabile della Vita e tutte le sue sfumature più difficili da esprimere.

Quella stessa difficoltà dinanzi a cui ci troviamo quando esploriamo sagome e contorni come quello della memoria o, anche, soprattutto, del ricordo: nell’indecifrabilità suggerita da Woody Allen rispetto a se sia, esso, il ricordo, qualcosa che abbiamo o qualcosa che abbiamo perduto. Un quesito, questo, da vortice bianco: ma che comunque in Piero Brambilla trova risposta – almeno parziale, così come incomplete sono le domande più affascinanti – nelle diapositive della propria vita che scatta e dipinge con la serenità del giusto.

Il potere della memoria

Piero Brambilla, da alcune delle sue tele, è come se facesse emergere una riflessione che soltanto la forza dell’immagine può sottoporci. Ognuna delle sue tele – sia quelle dai paesaggi più o meno riconoscibili che quelle dal respiro più generico e volutamente farcito di vaghezza di contorno – è come se ci domandasse: “qual è la differenza, ormai, tra il non esistere e il non esistere più?”.

Siamo così sicuri, insomma, che la definitività di un qualcosa dall’esistenza smorzata abbia un riscatto morale e validante nei confronti di qualcosa che, magari, talvolta per fortuna, non è mai effettivamente esistito? Se opponiamo la nostra colpevole indifferenza alla fragorosità tragica di alcuni eventi della Civiltà Umana, siamo certi che non sia tanto dissimile dal non averli visti affatto o dal non esserne mai venuti a conoscenza? Dall’esterno di una scatola nera che porti all’interno di sè la promessa, garanzia, notizia, della Vita di un felino – paradosserebbe qualcuno – siamo così certi di poterci definire esenti da colpe o, perlomeno, da consapevolezze di vario genere?

“Arriva un momento in cui parlare e tacere, divengono la medesima cosa. E dunque mi taccio!”: così diceva ne “Le voci di dentro” Eduardo De Filippo. E non è forse vero che, nella sostanza, quel silenzio così potentemente comunicativo che invocava il commediografo napoletano somiglia così rumorosamente ai sussurri flebili e decisissimi di Piero Brambilla con un pennello in mano che dipinge e partorisce memorie?

Quelle stesse memorie, beninteso, che fanno dell’essere effettivamente esistite o meno un dettaglio del tutto trascurabile – se poste dinanzi alla forza dell’intenzione delle idee e del concetto mentale che conferisce loro i natali più embrionali.

La memoria non esiste, se non nel percorso che essa fa fino ad arrivare all’inizio di noi stessi permettendoci di intraprendere strade, percorsi e scelte meno dolenti e sbagliate.

Così come, allo stesso modo, l’immaginazione non esiste se non per l’adrenalina del sogno: ovvero per quelle immagini che l’immaginazione disegna all’inizio di se stessa.

Non vi è passo indietro, dunque; non vi è passo avanti, in fine.

E la delicatezza di Piero Brambilla sembra oscillare proprio lì: in quella congiunzione, di cui lui è il collante invisibile, tra due cose che non esistono (più), passato e futuro, eppure così condizionanti per le nostre Vite, le nostre scelte, le nostre interiorità.

Piero e gli altri Piero

Sulla scia della permissività che solo l’anima sempre giovane (e dalle mani felicemente e perennemente sporche di nuovi instancabili e appassionati tentativi) permette, dal punto di vista estetico e compositivo, ancora una volta,

Piero Brambilla porta con sè alcuni dilemmi di non facile penetrazione e traspirabilità – la cui permeabilità risulta essere intenzione e proiezione tutt’altro che elementare.

All’interno dello stesso Artista, infatti, sembrano coesistere più traiettorie, più costole, più identità di lui stesso: come se ognuno fosse l’affluente dell’altro di un fiume principale talmente vigoroso che, quasi, non esiste – auto annientandosi per eccesso, come in un’autocombustione di passione e di furore.

Convivono, di certo, diversi e rispettabili Piero Brambilla, dentro Piero Brambilla.

Ognuno ventriloquo dell’Uomo che ha così tanto vissuto e amato. Ed ecco che, perlustrandone l’Opera nella sua varia totalità (o totale varietà), il Piero astrattista dialoga con quello vedutista, il Piero ceramista chiacchiera con quello scultore; e ancora, il Brambilla geometrico scambia virtuosamente con il Brambilla per scelta orientativo e indefinito, per poi osservare la reciprocità tra l’esecutore appannato e quello nitidissimo. E così via, fino a scovare moltitudini di Piero, dentro un unico corpo che, evidentemente, non era abbastanza per contenere tutto l’incontenibile di cui si componeva il mosaico trasbordante della sua sconfinata sensibilità – pareggiata solo dal volume impronunciabile della sua sofferenza che palpita nella quiete incerta e stabile, seppur evidentissima, delle sue tele.

Piero Brambilla cadeva, ma lo sapeva sin dall’inizio e, forse proprio per questo, non c’è neanche il più lontano sentore di preoccupazione o di isteria, nei confronti di questa inevitabile condizione, all’interno dei suoi dipinti. Ed è per questo che, nonostante i dolori, le angosce, i tormenti e le inquietudini, in fine, ad emergere, inaspettatamente, è, a ben guardare, una cosa che non avevamo ponderato: la speranza.

Laddove per Piero Brambilla, essa, si espande nei suoi colori carnosi e lieti. Quasi accomodati, alla fine, sull’assenza di senso dell’esistenza – quand’è consapevole che non sarà mai abbastanza per rispondere a tutte le domande.

Ed è lì, proprio lì, precisamente lì, inequivocabilmente lì, che tutti i Piero si sovrappongono, come in una danza della vita o della morte che, mai come prima, in un abbraccio, si sciolgono, forse scomparendo dalla miseria della Vita nella concezione a noi tutti nota e sublimandosi, finalmente, in un unico grande Piero, gigantesco e buono nella dimensione altissima dell’Eterno: quella che solo l’Arte può sussurrare.

E che solo la completezza meraviglioso del Piero Brambilla Uomo e del Piero Brambilla Artista , commovente incastro irripetible, hanno potuto far esistere su questo Mondo.

“Assolutamente no”, fu la risposta; “ma contateci, intende essere severo con noi, e il mezzo più sicuro per deluderlo sarà di non chiedergli nulla in proposito.”

Galleria:

GAD Galleria d’Arte Domestica

Dal lunedì al venerdì dalle 10.30 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 17.30. Solo su prenotazione.

Vernissage:

Venerdì 14 Aprile alle ore 19.00

A cura di:

Luca Cantore D’amore

Da un’idea di:

Massimiliano Pianta e Domenico Galeotti

Info e prenotazioni:

Tel +39 0291320473 – info@crudemon.com